Nata a Stockton, California, nel 1969
Vive e lavora a New York
Il principale paradosso degli Stati Uniti d’America è quello di essere una nazione multietnica, che però è nata e si è formata nelle ideologie del «Manifest Destiny» e della superiorità della razza bianca. Una nazione nata dalla diseguaglianza e cresciuta nell’iniquità. Così oltre 150 anni dopo la ratifica del tredicesimo emendamento, nella stessa America che ha eletto un Presidente nero, sono tante le sacche di razzismo, xenofobia e ignoranza. E per molti, troppi, gli afroamericani continuano ad essere ancora oggi gli «sporchi negri».
Kara Walker ha dedicato tutta la sua produzione di artista a combattere il razzismo latente dell’America profonda, facendo emergere attraverso le sue immagini l’orrore pudicamente rimosso, la storia inenarrabile, la frase impronunciabile. Un razzismo visto con i propri occhi, vissuto sulla propria pelle, e la ricerca attorno ai perché e ai quando dell’ingiustizia trasformano la giovane ragazzina nera in una finissima intellettuale che si ispira alla storia e alla letteratura, scovando fatti e rappresentazioni raccapriccianti da riprodurre e trasformare in immagini d’arte.
Lo stile è inconfondibile: la silhouette ricorda le illustrazioni dei vecchi romanzi ed era considerata, nell’Ottocento, un’arte eminentemente femminile; inoltre diventa metafora dello stereotipo e consente al tempo stesso di creare delle ambiguità nella visione che aprono a significati nuovi. Una silhouette riporta i tratti essenziali, rinuncia a colore e dettagli, raffigura la sostanza e non l’accidente e per questo universalizza le situazioni, stereotipizza i protagonisti. Mai come in questo caso la scelta del medium potenzia il messaggio: sospese tra l’indice e l’icona, secondo la puntuale lettura di Alessandra Raengo, le sagome dipinte e ritagliate di Kara Walker sembrano essere una traccia vera, fisica, dei protagonisti acquistando lo stesso potere di suggestione del più riuscito dipinto iperrealistico. Traccia, o meglio ancora ombra, come se il foglio o la parete fossero un negativo direttamente impresso.
Slavery! Slavery! Presenting a GRAND and LIFELIKE Panoramic Journey into Picturesque Southern Slavery or “Life at ‘Ol’ Virginny’s Hole’ (sketches from Plantation Life)”See the Peculiar Institution as never before! All cut from black paper by the able hand of Kara Elizabeth Walker, an Emancipated Negress and leader in her Cause, 1997, cut paper on wall, 366 × 2590 cm. Installation view, ARC/Musée d’Art moderne de la Ville de Paris, 2007. Photo: Florian Kleinefenn. © Kara Walker, courtesy of Sikkema Jenkins & Co., New York
Le scene raffigurate sono scene di violenza e di sottomissione, linciaggi e stupri praticati da figurini in costumi del Settecento e dell’Ottocento. Situazioni apparentemente ironiche e leggere che necessitano uno sguardo attento per cogliere in una donna scagliata in aria o in una fellatio, allusioni a fatti storici realmente accaduti. Tutto appare delicato. La storia della schiavitù e della società negli Stati Uniti del Sud negli anni recedenti la Guerra di Secessione si insinua nelle pagine del feuilleton per poi sorprendere e scioccare con più forza. Sono storie che hanno la loro collocazione precisa nella linea del tempo ma raccontano anche di una storia che perdura ed eternamente ritorna, quella di un razzismo mai davvero sconfitto e di una xenofobia che sembra connaturata all’essere umano.
Con il tempo i lavori della Walker si fanno più complessi, le dimensioni si allargano e le silhouette incollate sui muri diventano una sorta di pitture parietali, ovvero giochi di ombre, a grandezza naturale. La scala è quella del diorama che occupa tutto lo spazio espositivo e accoglie lo spettatore il quale proietta anch’esso la propria ombra nella scena (le luci sono sempre sapientemente studiate a tal fine) e diventa parte del tutto (es. Gone, An Historical Romance of a Civil War as It Occurred Between the Dusky Thighs of One Young Negress and Her Heart, 1994, oppure Slavery! Slavery!, 1997, o ancora They Waz Nice White Folks While they Lasted, 2001). O addirittura, ma più raramente, si sviluppano piatte sagome tridimensionali (Burning African Village Play Set with Big House and Lynching, 2006) e, infine, si arriva alla vera e propria scultura. A Subtlety or The Marvelous Sugar Baby (2014) è una gigantesca sfinge di polistirolo rivestito di candido zucchero, con i tratti somatici di una donna nera, che invade la navata centrale dell’ex zuccherificio Domino di Williamsburg, Brooklyn; enorme e sensuale, l’opera intreccia rimandi alla storia della produzione dello zucchero e allo sfruttamento degli schiavi di colore, ai templi egizi e ai miti antichi della fertilità, alla storia recente di New York e ai problemi alimentari del presente.
A Subtlety, or the Marvelous Sugar Baby, an Homage to the unpaid and overworked Artisans who have refined our Sweet tastes from the cane fields to the Kitchens of the New World on the Occasion of the demolition of the Domino Sugar Refining Plant, 2014, polystyrene foam, sugar, 10.8 × 7.9 × 23 m. Installation view, Domino Sugar Refinery, 2014. Photo: Jason Wyche. © Kara Walker, courtesy of Sikkema Jenkins & Co., New York
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Nata a Stockton in California nel 1969, da giovane si sposta con la sua famiglia ad Atlanta, Georgia. Qui frequenta l’Atlanta College of Art, dove consegue un BFA in pittura e incisione nel 1991. Alla Rhode Island School of Design di Providence ottiene il BFA nel 1994. Tra le mostre personali si ricordano Kara Walker: Virginia’s Lynch Mob and Other Works al Montclair Art Museum (2018), The Emancipation Approximation, Kara Walker alla Studiengalerie 1.357 della Goethe Universität di Francoforte (2018), Kara Walker: Harper’s Pictorial History of the Civil War allo Smithsonian American Art Museum di Washington (2017), Harper’s Pictorial History of the Civil War (Annotated) by Kara Walker (2012) e Anything but Civil: Kara Walker’s Vision of the Old South (2014) al Saint Louis Art Museum, Kara Walker: A Negress of Noteworthy Talent alla Fondazione Merz di Torino (2011), The Black Road al CAC Málaga (2008), allo Hammer Museum di Los Angeles (2008) e al Museum of Modern Art di Fort Worth (2008), Kara Walker: My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love al Walker Art Center di Minneapolis (2007), al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris (2007) e al Whitney Museum of American Art di New York (2007), Kara Walker at the Met: After the Deluge al Metropolitan Museum of Art di New York (2006), Grub for Sharks: A Concession to the Negro Populace alla Tate Liverpool (2004), Kara Walker, Slavery!, Slavery! alla 25a Bienal de São Paulo (2002), The Emancipation Approximation al The Tel Aviv Museum of Art (2001), Upon My Many Masters – An Outline al San Francisco Museum of Modern Art (1997), Kara Walker: No mere words… al CCAC Institute di Oakland/San Francisco (1999) e all’UCLA Hammer Museum of Art di Los Angeles (2000). Nel 2007 ha partecipato alla 52a Biennale d’Arte di Venezia. Walker è professoressa di arti visive alla Columbia University. Ha ricevuto numerosi premi tra i quail il John D. and Catherine T. MacArthur Foundation Achievement Award nel 1997 e lo United States Artists Eileen Harris Norton Fellowship nel 2008. Nel 2012 Walker è diventata membro della American Academy of Arts and Letters. È rappresentata dalle gallerie Krakow Witkin Gallery di Boston e Sikkema Jenkins and Co. di New York.
Riferimenti bibliografici
Laura Barnett, Kara Walker’s art: shadows of slavery, in “The Guardian”, 10 ottobre 2013, https://www.theguardian.com/artanddesign/2013/oct/10/kara-walker-art-shadows-of-slavery
Kimberlie Birks, Kara Walker a New York, in “Domusweb”, 21 maggio 2014, https://www.domusweb.it/it/arte/2014/05/21/kara_walker_a_new_york.html
Alessandra Raengo, “Life to Those Shadows!” Kara Walker’s Post-Cinematic Silhouettes, in Shane Denson, Julia Leyda, Post-Cinema: Theorizing 21st-Century Film, Reframe Books, 2016
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