Nata a Gießen, Repubblica Federale di Germania, nel 1978
Vive e lavora tra Francoforte e Berlino
I lavori di Anne Imhof usano il linguaggio del corpo e l’installazione per trasmettere in maniera dirompente un messaggio che coinvolge il pubblico su determinati temi e lo rende partecipe e consapevole della condizione dell’essere umano nel nostro presente storico.
Prima di tutto risulta di estremo interesse la riflessione concettuale metalinguistica che sembra tracciare un punto di arrivo e sintesi di tutte quelle che sono state le ricerche sul linguaggio corporeo dagli anni Cinquanta ad oggi: dagli happening di Allan Kaprow alle performance di Marina Abramovic, dal teatro dell’oppresso di Augusto Boal all’arte relazionale di Pierre Huyghe e Gillian Wearing. Lo spazio pensato per l’azione è predisposto come un’installazione ambientale inclusiva in grado di suggestionare e preparare il pubblico alla comunicazione degli attori che avviene attraverso il corpo e la parola, l’azione e il suono. La coreografia si basa su gesti arcaici e criptici che danno vita a micro-azioni distinte che accelerano o rallentano di continuo, e si susseguono anche per diverse ore.
In Deal (New York, 2015) i performers si muovono con gesti lenti e rituali tra due vasche di pietra che contengono del latticello, sporcandosi e contaminandosi l’un l’altro con il liquido bianco.
Angst (Basilea, Amburgo, Montréal, 2016-17) è concepito come un’opera in tre atti dove la dimensione corale si fa sempre più marcata. L’utilizzo di fumo e nebbie, così come i canti corali, rimandano a una dimensione misterica e sacrale, mentre la presenza di animali (il coniglio, il falco) richiamano un mondo simbolico e naturale; la tecnologia (le barriere d’acciaio, il drone) è quasi sempre elemento alieno e un riferimento palese ai sistemi di controllo; il tutto è permeato da un forte erotismo, latente o esplicito, che si svela nei contatti e negli sguardi tra gli attori, nei liquidi e in certi props seducenti, ma viene sempre raffreddato dalla lentezza dei gesti e dal distacco di una gioventù apatica e melanconica, perennemente sospesa tra un hic reale e un alibi virtuale.
Faust (Venezia, 2017) rilegge l’architettura del padiglione tedesco ai Giardini dell’Arsenale creando una sorta di prigione asettica – o un piccolo Stato nello Stato che ha chiuso le proprie frontiere – protetta da recinti metallici. L’accesso al padiglione avviene esclusivamente da due ingressi laterali. Il pavimento di vetro rialza il piano di calpestio e isola uno spazio sottostante destinato ai soli attori, mentre il pubblico e altri attori si muovono sopra. I giovani performer sono presenze solenni e distaccate, post-human e no-gender, che danno luogo ad azioni semplici ma potentissime, urla in un silenzio assordante: premono il corpo contro i vetri, si calpestano, si toccano, usano oggetti di scena come saponette, barattoli di vasellina, asciugamani, corde e cavi elettrici che trovano in giro. Riecheggiano melodie composte dall’artista insieme a Billy Bultheel e cantate da Franziska Aigner e Eliza Douglas, interpreti di questo e degli altri grandi lavori della Imhof. In cicli di quattro ore i performer danno vita a sculture animate, composizioni pittoriche, che si attivano e disattivano, innescano e disinnescano.
Anche in Sex (Londra, Chicago, 2019) sono messe in scena una serie di cinque performance dal vivo che uniscono musica, pittura e gesti coreografici. Queste si svolgono la notte, negli spazi che di ospitano installazioni di dipinti, sculture e interventi ambientali. Tutto il lavoro è giocato ora sullo stridente contrasto tra il fondersi e confondersi con gli altri (contatto, odori, stessa gestualità) e il mantenere le distanze, tra la vicinanza fisica e il distanziamento.
Di fronte ai lavori di Anne Imhof il visitatore viene responsabilizzato, si rende conto di non essere mero spettatore ma protagonista non solo della performance in corso ma della propria vita, in un gioco destabilizzante che ci mette a confronto con l’alterità e coi meccanismi di oppressione e limitazione della libertà. Specchio della società e della civiltà occidentali, implacabile e perturbante, queste opere preludono all’avvento di un’umanità nuova, in equilibrio tra ferinità e distacco, tra desiderio e repressione, tra aperture al diverso e paure dell’altro.

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Nata a Gießen nel 1978, Anne Imhof si è formata presso l’Université des Arts appliqués d’Offenbach e la Städelschule di Francoforte. Tra le principali mostre si ricordano Sex alla Tate Modern di Londra (2019), all’Art Institute Chicago (2019), Angst III alla Biennale di Montréal (2017), Faust al Padiglione tedesco alla 57a Biennale d’arte di Venezia (2017), Angst II alla Hamburger Bahnhof di Berlino (2016), Angst alla Kunsthalle Basel (2016), DEAL al MoMA PS1 di New York (2015), la personale al Carré d’Art – musée d’art contemporain de Nîmes (2014), Rage II ad Art Basel (2014), SOTSB njjy alla galleria New Jerseyy di Basilea (2013), Parade al Portikus di Francoforte (2013), la personale all’Audition Opelvillen di Rüsselsheim (2012). Ha partecipato a Beautiful Balance alla Kunsthalle Bern e al CAPC – Musée d’Art Contemporain di Bordeaux (2012), a Present Future ad Artissima a Torino (2014), a Do Disturb al Palais de Tokyo e al Nouveau Festival al Centre Pompidou di Parigi (2015). Nel 2015 ha vinto il Preis der Nationalgalerie (Hamburger Bahnhof, Berlino) per i giovani artisti. È rappresentata dalle gallerie Isabella Bortolozzi di Berlino e Buchholz di Colonia.
Riferimenti bibliografici
Maria Paola Zedda, Biennale di Venezia. Il Padiglione tedesco di Anne Imhof, in “Artribune”, 31 maggio 2017, https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2017/05/biennale-venezia-padiglione-tedesco-anne-imhof/
Leonardo Merlini, Il (pazzesco) peso del mondo: Anne Imhof alla Biennale, in “Minima&moralia”, 27 luglio 2017, http://www.minimaetmoralia.it/wp/pazzesco-peso-del-mondo-anne-imhof-alla-biennale/
Haley Weiss, Anne Imhof’s Angst, in “Interview Magazine”, 7 novembre 2016, https://www.interviewmagazine.com/art/anne-imhof
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