Nato a Kostërrc, Kosovo, nel 1986
Vive e lavora tra Berlino, Bozzolo (MN) e Pristina
Gaia: Sapete qual è il problema? I recinti non sono solo intorno alla fattoria, sono qui, nella vostra testa! C’è… Un posto migliore là fuori! Da qualche parte oltre quella collina e… beh, ci sono grandi spazi aperti e tanti alberi e… erba! Riuscite a immaginarla? Buona erba verde!
Gallina#1: E chi ci nutre?
Gaia: Nessuno, ci nutriremo da sole!
Gallina#2: Dov’è l’allevamento?
Gaia: Non c’è l’allevamento!
Baba: E allora dove vive l’allevatore?
Gaia: Non c’è allevatore, Baba!
Durante la produzione di Galline in Fuga, Peter Lord e Nick Park si saranno sicuramente divertiti molto immaginando questo dialogo. Le diverse protagoniste finiscono presto per essere, se vogliamo, l’archetipo dei diversi caratteri, vizi e virtù, di noi umani: il sognatore, il coraggioso, lo scettico, il pessimista, il millantatore. Se per un’analisi politica della nostra società è stato meglio affidarsi ai maiali, le galline sembrano perfette per una riflessione più intima su emozioni e desideri. Già in queste poche battute il film ci apre a temi come il desiderio di cambiamento, l’idea del viaggio come scoperta di realtà diverse, la responsabilità che ogni libertà comporta.
They are Lucky to be Bourgeois Hens II [Loro sono fortunate a essere galline borghesi II] di Petrit Halilaj sembra mostrare una simpatica e senz’altro curiosa affinità di temi e mezzi espressivi con il film della Dreamworks: l’installazione presentata al Pirelli HangarBicocca nel 2015, consiste in un rudimentale razzo spaziale in legno che mostra parte del suo interno dipinto in blu Klein; qui vivono delle galline (e un gallo) che possono girare liberamente dentro e attorno al razzo e persino accedere agli altri spazi della mostra. L’operazione non può non ricordare Senza Titolo (12 cavalli) di Jannis Kounellis, che nel 1969 per inaugurare i nuovi spazi della Galleria Attico vi fece stazionare i dodici animali vivi, ma il lavoro di Halilaj stratifica molteplici riferimenti personali e culturali: la struttura è creata con gli stessi materiali utilizzati per edificare la casa di famiglia a Pristina e, se da un lato il razzo richiama il desiderio di un viaggio alla scoperta di altri luoghi, altri mondi, il titolo del lavoro allude con sottile ironia al desiderio di cambiamento e associa agli animali un valore prettamente umano, quello dell’appartenenza a una classe sociale. L’installazione di Milano è l’evoluzione di They are Lucky to be Bourgeois Hens (2008), realizzato all’interno di un luna park a Istanbul e di fatto una sorta di parco a tema per galline, con installazioni in legno, ferro e objet trouvé.
Il lavoro di Halilaj nasce da esperienze personali, ricordi e sensazioni legate ai luoghi familiari, rievocati e sublimati in arte da fino a costituire una propria piccola mitologia personale. Qui trova posto una riflessione più generale e profonda sulla memoria, sulla storia e sulle tradizioni, su temi universali come la libertà, la condivisione, la riscoperta e la conservazione dell’identità culturale. Centrali diventano inesorabilmente i fatti della storia del Kosovo e le tensioni politiche e culturali che hanno animato fino a pochi anni fa la regione balcanica. I suoi lavori si caratterizzano per l’uso di materiali naturali come il legno, la terra e l’acqua, il rame, l’ottone e l’argilla.
La serie Si Okarina e Runikut [Come l’ocarina di Runik] (2014) riprende e altera le forme dell’antico strumento musicale a fiato, simile all’ocarina, che è stato rinvenuto nel sito archeologico di Runik, uno dei più importanti e meno conosciuti siti neolitici al mondo. Halilaj ha appreso la tecnica di realizzazione delle ocarine da Shaqir Hoti, uno degli ultimi a costruire e suonare questi strumenti, ma vi ha inserito dei lunghi tubi di ottone che servono sia da imboccature che da sostegno ai lavori. Queste opere sono pensate per essere effettivamente suonate, anche da più persone contemporaneamente: tradizione, storia, valore sociale e culturale della musica convivono così in questi strani organismi ramificati, precari ed eleganti.
Presentata nel 2010 in occasione della 6ª Biennale di Berlino, The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real (2010) è un’enorme installazione composta dalle casseforme in legno utilizzate durante la costruzione della nuova casa della famiglia dell’artista a Pristina: la struttura si presenta quindi come una sorta di calco della casa costruita o almeno della sua struttura portante; alcuni mattoni alla base delle armature alludono alla corruzione e alle mafie legate al rilascio dei permessi per gli interventi edili. Durante la mostra anche questa installazione era abitata da un gruppo di galline libere di girovagare. Riproposta al Pirelli HangarBicocca nel 2015 l’opera assume qui una connotazione diversa e sembra “esplosa” su più livelli, creando un dialogo serrato con l’architettura che la ospita. Forti sono i rimandi al razionalismo, all’arte concreta e alle geometrie pulite del disegno tecnico.

Shkrepëtima (2018) approfondisce l’indagine sulla storia di Runik guardando questa volta al passato recente e agli anni della Repubblica Socialista di Jugoslavia, in un percorso sulla riscoperta della memoria e dell’identità culturale della comunità. Il progetto nasce con la performance del luglio 2018 presso i ruderi della Casa della Cultura di Runik che era la sede della cooperativa sociale e ospitava la biblioteca, il cinema e il teatro; con la guerra le attività che qui si tenevano si erano interrotte e l’edificio era poi stato parzialmente distrutto. Halilaj ha coinvolto un centinaio di persone tra abitanti del villaggio, performer, attori e musicisti per recuperare lo spazio e svolgervi lo spettacolo, performance che riprendono frammenti di vecchi drammi albanesi funzionali a riflettere sui temi della lotta per la libertà personale e collettiva, del machismo, del tradizionalismo e dell’educazione femminile. I costumi, i fondali dipinti e gli oggetti di scena (come il letto della scena iniziale o alcuni detriti rimossi dall’edificio), disegni e studi delle performance realizzati su vecchi documenti commerciali ritrovati dall’artista nelle stanze dell’archivio abbandonato (testimonianze della vita e delle attività che qui si svolgevano), oltre naturalmente ai video, hanno poi costituito l’ossatura per le mostre successive alla Fondazione Merz di Torino (2018) e al Paul Klee Zentrum di Berna (2018), in un interessante dialogo tra spazi diversi e culture differenti.

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Nato a Kostërrc, Kosovo, nel 1986, Petrit Halilaj si è formato all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Tra le mostre personali più importanti si ricordano To a raven and hurricanes that from unknown places bring back smells of humans in love al Retiro Park – Palacio de Cristal Reina Sofía di Madrid (2020), Petrit Halilaj allo Hammer Museum di Los Angeles (2018), Shkrepëtima alla Fondazione Merz di Torino (2018) e al Paul Klee Zentrum di Berna (2018), Ru al New Museum di New York (2017), Astronauts Saw My Work and Started Laughing allo Stacion – Center for Contemporary Art di Pristina (2017), Space Shuttle in the Garden al Pirelli HangarBicocca di Milano (2015), ABETARE al Kölnischer Kunstverein di Köln (2015), She fully turning around became terrestrial alla Bundeskunsthalle di Bonn (2015), Darling squeeze the button and remove my memory alla Galeria e Arteve e Kosovës di Pristina (2014), Poisoned by men in need of some love al WIELS Contemporary Art di Bruxelles (2014), I’m hungry to keep you close. I want to find the words to resist but in the end there is a locked sphere. The funny thing is that you’re not here, nothing is alla Kunshalle Lissabon di Lisbona (2014), July 14th? alla Fondation d’Entreprise Galeries Lafayette di Parigi (2013), Solo exhibition al Tongewölbe T25 di Ingolstadt (2013), Who does the earth belong to while painting the wind?! alla Kunsthalle Sankt Gallen (2012), Petrit Halilaj al Kunstraum Innsbruck (2011), Back to the Future allo Stacion – Center for Contemporary Art di Pristina (2009). Ha partecipato alla 15ème Biennale de Lyon (2019), alla 57a Biennale d’arte di Venezia (2017) e alla 6a Berlin Biennale (2010). Ha rappresentato il Kosovo alla 55a Biennale di Venezia nel 2013 e ha ricevuto il Premio Mario Merz e la menzione speciale della giuria alla 57a Biennale di Venezia. È rappresentato dalle gallerie Kamel Mennour di Parigi, Doris Ghetta di Ortisei e ChertLüdde di Berlino.
Riferimenti bibliografici
Leonardo Bigazzi, Petrit Halilaj – Shkrepëtima!, in “Flash Art”, 12 Marzo 2019, https://flash—art.it/article/shkrepetima/
Hettie Judah, Artist Petrit Halilaj’s Living Archaeology (interview), in “Frieze”, #201 (marzo 2019), https://frieze.com/article/artist-petrit-halilajs-living-archaeology
Lucia Aspesi, Alessandro Cane, Fiammetta Griccioli, Petrit Halilaj. Space Shuttle in the Garden, Pirelli HangarBicocca, Milano 2019
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