Nata a Calcutta, India, nel 1963
Vive e lavora a New York
Le opere di Rita Banerjee sono un’esplosione di colori e forme riconducibili alla tradizione indiana che l’artista riprende e declina in un immaginario personale e visionario di inesauribile e sorprendente varietà. Personaggi fantastici memori della cultura e della cosmologia indiana, ibridi uomo-animale, androgeni, o curiosi organismi mutanti animano ambientazioni sature di colori o motivi vagamente fitomorfi. Questi esseri sembrano trascinarsi in un’incessante danza, che è la danza della vita, dove tutto è metamorfosi, un susseguirsi di cambiamenti anche violenti ma sempre necessari. Da qui il continuo alludere al sangue e a fluidi organici, umori e sperma, che sono origine, fine e nuova rinascita, in un ciclo continuo. Tutto questo, anche gli aspetti più triviali o violenti, è tuttavia sublimato in una bellezza assoluta.
L’eleganza della linea, caratteristica della tradizione grafica indiana, è resa vibrante da un’incontenibile esplosione di energia primitivista e da una vocazione polimaterica, retaggio, entrambe, della lezione delle avanguardie storiche. La produzione di Banerjee spazia dall’uso dell’acrilico e inchiostro su carta o su tavola, con gradevoli inserti di fondi d’oro, a installazioni polimateriche e coloratissime di stoffe, piume, perle, cristalli, gioielli, conchiglie, ma anche corde, legni, lampadine e raffinati object trouvé come piccole figurine in ceramica, resina o metallo. Su tutto domina l’eleganza di forma e colore, tra ricchezza neobarocca e sinuosità neoliberty, tutto declinato nelle molteplici varianti del decorativismo intrinseco all’arte tradizionale induista.
Make me a summary of the world (2014) è esemplare di questo «realismo fantastico» e del gusto per l’eleganza delle forme organiche sia quando queste sono morbide umide e accoglienti sia quando sono, come in questo caso, appuntite e minacciose. I materiali più vari e più impensati concorrono alla determinazione della forma, con giustapposizioni sorprendenti: il grande e il piccolo, l’organico e l’inorganico, il soffice e l’estremamente duro.
Alchimista e maga, quando rientra nell’alveo più tradizionale della pittura, Banerjee ci presenta immagini che sono la parte e il tutto di racconti universali perché riguardanti i sentimenti più umani: la scoperta del sé e della propria identità, l’amore, il confronto con l’altro e con le imposizioni della società. Il bello non è quindi mai fine a sé stesso. Infectuos migrations (Whitney Biennial, 2000) ad esempio tratta problemi attuali come l’immigrazione e l’AIDS. I titoli d’altro canto sono altrettante chiavi di lettura o di apertura a nuovi significati racchiusi in questi miti: “Upon matrimonial floods, guardian and watery gardens opened to intermediaries who negotiated weddings and unfolded the economy of daughters, revealed monetary transactions with match maker’s mystery” (2016) è un’esplosione di colori che inneggiano alla vita, al sesso, alla natura, all’amore.
Tornano e ritornano alcune immagini simboliche che appartengono sia alla storia dell’arte che alla cultura di massa, alla storia indiana e all’immaginario coloniale, che vengono trasfigurate e riconfigurate. Take me, take me, take me … to the Palace of Love (2003) riproduce un Taj Mahal sospeso fatto con un’armatura di metallo avvolta con polietilene fucsia: uno dei più grandi e iconici capolavori architettonici del mondo è così ridotto alla trivialità e al kitsch dell’oggetto turistico.

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Rina Banerjee è nata a Calcutta nel 1963. È cresciuta a Londra e a New York. Dopo essersi laureata in ingegneria dei polimeri alla Case Western University nel 1993, due anni dopo consegue un MFA alla Yale University. I suoi lavori sono stati esposti in numerose mostre personali tra le quali Rina Banerjee: Make Me a Summary of the World alla Pennsylvania Academy of the Fine Arts di Philadelphia (2018, poi al Fowler Museum – UCLA di Los Angeles, al San José Museum of Art, al Frist Art Museum di Nashville e al Nasher Museum of Art – Duke University di Durham), A world lost alla Sackler Gallery – The Smithsonian’s Museums of Asian Art di Washington (2014), Glasstress, Murano Project Whitelight/white Heat in occasione della 55a Biennale di Venezia (2013), Chimères de l’inde et de l’occident al Musée Guimet di Parigi (2011), la personale al The Aldrich Contemporary Art Museum del Connecticut (2008), Phantasmal Pharmacopoeia al Painted Bride Art Center di Philadelphia e al Debs & Co. di New York (2001). Sue opere sono presenti in molte collezioni pubbliche e private in tutto il mondo, come il Whitney Museum, il Queens Museum e il Brooklyn Museum di New York, il San Francisco Museum of Modern Art, il Centre George Pompidou di Parigi. Ha partecipato alla 57a Biennale d’arte di Venezia (2017), alla Triennale di Yokohoma (2011), a Art Unlimited a Basilea (2008) e alla Whitney Biennial (2000). Gallerie di riferimento sono la Galerie Nathalie Obadia di Parigi e Bruxelles e LA Louver di Venice, CA. Sito dell’artista: rinabanerjee.com.
Riferimenti bibliografici
Costanza Meli, Rina Banerjee , in 57. Esposizione Internazionale d’Arte. Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia, Venezia 2017
Joshua Reiman, Shape Shifter: A Conversation with Rina Banerjee, in “Sculpture Magazine”, 37-8 (ottobre 2018)
https://www.sculpture.org/documents/scmag18/oct_18/fullfeature.shtml
Mathias Ussing Seeberg, Banerjee: Art commands awareness of our humanness, in “Indians and Danes: Co-create Now”, gennaio 2013.
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