Nato a Copenhagen, Danimarca, nel 1974
Vive e lavora tra Copenaghen e Berlino
È ormai riconosciuto che il Minimalismo ha ottenuto i risultati più interessanti quando si è staccato dalla rigidità di volumi geometrici singoli o in serie delle primary structures ed ha cominciato a invadere lo spazio dell’ambiente, riconquistando, in quel momento, la capacità di suggestionare il pubblico sul piano delle sensazioni, capacità che alle prime ricerche degli artisti newyorkesi era mancata. Pur perdurando la rigidità intrinseca alla “hardness” dei materiali industriali impiegati – e che soltanto le ricerche artistiche antiform e poveriste riuscirono a superare definitivamente – la scala ambientale ha consentito allo spettatore di diventare parte integrante dell’opera stessa, presenza inserita “dentro”, e non più davanti, al lavoro artistico.
L’arte di Jeppe Hein parte da questo vocabolario e dalla ormai acquisita vocazione ambientale del minimalismo, caricandolo di un’ironia che si rivolge alla rigidità delle forme stesse, al linguaggio impiegato, e alla fruizione dell’arte da parte dello spettatore. Sono proposte soluzioni stravaganti che creano attorno al visitatore un ambiente dinamico, ora ludico ora destabilizzante, a tratti pericoloso, che il fruitore stesso è in grado di attivare con la sua presenza e del quale ne subisce lo spettacolo. Nell’estetica del Minimalismo irrompono imprevedibilità, dinamismo, disorientamento. Shaking Cube (2004), Moving Neon Cube (2004), Broken Mirror Cubes (2005) e Burning Cube (2005) sono alcuni esempi di come la purezza della forma geometrica semplice e perfetta, il cubo in questo caso, possa essere dileggiata, aggredita e stravolta.
Tra le serie più conosciute Modified Social Benches (2005-15) parte da un oggetto semplice e di uso comune, le panchine degli spazi pubblici, e lo altera in modo da rendere insolita, al limite impossibile, e comunque “consapevole” la seduta e trasformando l’ordinario in straordinario. L’oggetto diventa così una messa in discussione della funzionalità e dell’estetica minimale, nonché pretesto per riconsiderare i concetti di pubblico, di condivisione, di comunicazione che sono più o meno riconducibili all’oggetto in questione.

Gli specchi (e in generale le superfici geometriche e specchianti) consentono un ventaglio di possibilità molto ampio nel gioco di interazione con chi guarda l’opera. Rotating Labyrinth (Tate Modern, 2007) è una installazione di specchi che riflette lo spazio della sala e crea una nuova spazialità disorientante per i visitatori che percorrono questa struttura ruotante e che vengono a loro volta riflessi diventando parte dell’opera e parte dello spettacolo messo in moto. Su scala urbana Mirror Labyrinth (Brooklyn Bridge Park, 2015-16) presenta specchi simili, questa volta fissi e di dimensioni diverse, che stabiliscono un dialogo formale e, attraverso il riflesso, visivo con lo skyline di Manhattan: il soggetto, l’ambiente e gli altri interagiscono tra loro. Lo specchio, al pari della panchina, subisce molte letture e viene esplorato in tutte le sue potenzialità concettuali e formali: sfere statiche o in movimento (Continuity Reflecting Space, 2003), dischi ruotanti azionati dalla presenza dei visitatori (Dimensional Mirror Mobile, 2011), palloncini che mettono in cortocircuito le sensazioni di leggerezza e pesantezza (Fly me to the Moon, 2016), sfere armillari che giocano con la luce, la forma e il colore (Chakra Enlightenment, 2015).

Una ricerca simile si sviluppa parallelamente anche attorno ai giochi di fontane. Space in Action – Action in Space (Venezia, 2002) è formato da getti d’acqua che creano un muro circolare e che si disattivano quando il visitatore si avvicina e può entrare nell’area centrale per essere poi di nuovo circondato dagli zampilli. In Appearing Rooms (Villa Manin di Passariano, 2004) la gestione della temporizzazione dei muri d’acqua è invece completamente lasciata al caso. Path of Silence (2016), la fontana installata al Kistefos Museet di Jevnaker, unisce giochi d’acqua e acciaio specchiante a materiali naturali come la quarzite, gli aceri e la flora norvegese.

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Nato a Copenhagen nel 1974, Jeppe Hein ha frequentato la Royal Danish Academy of Arts di Copenhagen (1997) e la Städelschule, Hochschule fur Bildende Künste di Francoforte (1999). Tra le mostre personali più importanti si ricordano Ausstellen des Ausstellens alla Staatliche Kunsthalle Baden-Baden (2018), Post Water al Museo Nazionale della Montagna di Torino (2018), Distance allo SKMU di Kristiansand (2017), Jeppe Hein Semicircular Space alla National Gallery of Victoria di Melbourne (2016), This Way al Kunstmuseum Wolfsburg (2015), Hexagonal Water Pavillion al Neues Museum Nürnberg (2012), 360° al 21st Century Museum of Contemporary Art di Kanazawa (2011), 1 x Museum, 10 x Rooms, 11 x Works, Jeppe Hein al Neues Museum Nürnberg (2010), Appearing Rooms al Perth Institute of Contemporary Arts (2010), Sense City all’ARoS di Århus (2009), Distance a The Curve al Barbican Art Centre di Londra (2007), Objects in the mirror are closer than they appear al Carré d’Art – Musée d’art contemporain de Nîmes (2007), Invisible Labyrinth all’Espace 315 – Centre Georges Pompidou di Parigi (2005), Flying Cube al P.S.1. MoMA di New York (2004), Intervention Impact allo Sprengel Museum di Hanover (2004), Continuity Reflecting Space alla Foundation La Caixa di Barcelona (2003), Take a Walk in the Forest at Moonlight al CAPC – Musee d’art Contemporain di Bordeaux (2002). Le sue opere sono state esposte alla 49a e 54a Biennali d’arte di Venezia (2003 e 2011). È rappresentato dalla König Galerie di Berlino, 303 Gallery di New York e dalla Galleria Nicolai Wallner di Copenhagen. Sito dell’artista: jeppehein.net.
Riferimenti bibliografici
Michel Gautier, Jeppe Hein. Attention à la boule et gare au cube, in “Art press”, 315 (settembre 2015)
Christian Skovbjerg Jensen, Jeppe Hein’s Modified Social Benches, in “Fluid Street”, 2008, pp. 104-109
Michael Wilson, Jeppe Hein, in “Art Forum”, aprile 2011
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