Il paese più grande e ricco di risorse dell’america latina ha oggi, come ha avuto per buona parte del Novecento, una ricchezza e una varietà di espressioni artistiche pari o superiore a quella di molti paesi occidentali. Decine le figure di artisti davvero interessanti che negli ultimi anni sono stati introdotti dalle gallerie brasiliane e non solo nel sistema dell’arte internazionale.

Figura di riferimento per quello che concerne l’impiego maturo di mezzi espressivi realmente contemporanei è Cildo Meireles (Rio de Janeiro, 1948). L’opera di dell’artista di Rio rivoluziona l’approccio analitico e tautologico dell’arte concettuale. Pur sfruttandone i linguaggi, il ready made, l’installazione, la performance, Meireles arriva a una poetica e romantica indagine sulle potenzialità della «relazione estetica», intesa come capacità di agire sui sensi. Le opere sono potenti amplificatori della sensorialità e gli spettatori sono invitati a un coinvolgimento percettivo totale. È il trionfo della sinestesia.
La ricerca artistica ruota attorno al concetto di spazio, inteso in senso non soltanto fisico ma anche psicologico e storico, luogo antropologico dove si sviluppano e stratificano le relazioni tra gli individui. Le installazioni di Meireles creano spazi praticabili che risvegliano la memoria ed evocano sensazioni. Esemplari in tal senso sono opere come Entrevendo (1970-94) o Através (1983-89). La prima consiste in una struttura in legno a forma di imbuto al termine della quale è posto un ventilatore che manda aria calda; lo spettatore è invitato a entrare e a sciogliere in bocca due cubetti di ghiaccio, uno dolce l’altro salato. La seconda è un imponente e pericoloso spazio attraversabile, cosparso di vetri rotti e riempito di barriere di vario tipo che rendono difficoltoso il passaggio. Babel (2001) è una colossale torre fatta di decine apparecchi radiofonici di varie epoche, funzionanti simultaneamente che producono un brusio continuo. Vista, tatto, gusto, udito, olfatto sono i sensi stimolati. Riferimenti culturali e memoria, personale e collettiva, trovano così un potente vettore.
Il forte impegno sociale, radicato nella famiglia Meireles, permea il lavoro dell’artista e diventa il fine ultimo di ogni sua indagine sul linguaggio artistico. Esplicito il riferimento alle condizioni della popolazione india dei Tupi nell’antimonumento Cruzeiro do Sul (1979-60), piccolo cubo in legno di pino e quercia, le essenze considerate sacre presso quella popolazione del Brasile. Palese anche la critica alle nefandezze dell’evangelizzazione da parte dei missionari gesuiti espressa in Missão/Missões (Como Construir Catedrais) (1987), costituito da una colonna di 800 ostie e da 2.000 ossa sospese su un pavimento di monete. Allusiva al processo di nascita e affermazione del capitalismo negli Stati Uniti è Olvido (1987-89), un tepee realizzato con 6.000 banconote di diversi paesi americani (simbolo del potere materiale) al centro di un cerchio composto da tre tonnellate di ossa bovine (simbolo del potere spirituale) e delimitato da un muretto di 70.000 candele (allusione alla tragedia generata dallo scontro tra potere materiale e spirituale). La poetica dell’accumulazione, la scelta dei materiali in base alle loro caratteristiche simboliche e sensoriali, l’utilizzo della scala dimensionale come meccanismo spiazzante e l’impiego ricorrente dell’elemento sonoro sono gli strumenti concettuali usati continuamente dall’artista.
Altri temi toccati da sempre sono la riflessione sull’attribuzione del valore e sulla circolazione delle merci e, quindi dell’arte, da Árvore do dinheiro (1969), formata da banconote da un cruzeiro messe in vendita a un valore venti volte superiore a quello effettivo, a Elemento desaparecendo/elemento desaparecido (passado imminente) (2002) opera che consiste unicamente nella vendita al pubblico di ghiaccioli d’acqua. 

Cildo Meireles, Divulgação. Exhibition view, SESC Pompeia, Sao Paulo. Courtesy Galerie Lelong & Co.

Negli ultimi vent’anni, tre artisti sono presenze ricorrenti e affermate nelle fiere d’arte e nelle principali rassegne internazionali.

L’opera di Beatriz Milhazes (Rio de Janeiro, 1960) è un tripudio di colori. Tutta la potenza cromatica del Brasile esplode, controllatissima, nelle affollate composizioni di forme geometriche e organiche, allusive a un mondo di fiori e piante tropicali, di fuochi di artificio, di ceramiche e merletti, di motivi ispirati alle culture primitive pluviali o alle volute dell’architettura barocca coloniale, o ancora alle decorazioni del carnevale. In fondo, la bellezza della natura trionfa su tutto. Echi art déco, influenze del Modernismo brasiliano di Tarsila Do Amaral e suggestioni matissiane e kandinskiane sono rilette in ottica digitale attraverso un diaframma che regolarizza, quantizza, vettorializza le forme e le rende regolari e perfette.
Gli elementi si accostano, giustappongono, sovrappongono, prendendo il loro posto nel caos-calmo, calibrato e studiato, delle composizioni. L’andamento delle linee, la combinazione delle forme, l’energia nei raggi di colore sono ispirati alla musica classica e alle melodie popolari, ai suoni delle feste e ai fuochi d’artificio, ai lievi rumori della natura, il respiro delle piante, lo stillare delle acque, la risacca marina. Il ritmo si esprime nel frenetico (oppure rilassato) sovrapporsi delle forme, stratificate in una successione di layer successivi. La stratificazione, il palinsesto caratterizza dalle origini la produzione di Milhazes: dalle prime serigrafie e dai lavori sviluppati a partire dai collage, le tecniche si sono evolute e differenziate, passando alla decalcomania, alla pittura acrilica e alla grafica, ma costanti sono rimasti lo stile e le modalità espressive.
Da sempre i lavori di Milhazes dialogano con lo spazio circostante e recentemente le sue opere si sono fatte coloratissimi assemblaggi di forme geometriche e colorate, palline di legno dipinto, sagome in plexiglass colorato, fiori di seta e perline, che traducono tridimensionalmente l’anima e le forme delle sue pitture.

Sperimentatore instancabile, Vik Muniz (San Paolo, 1961) ha sviluppato diverse tecniche assolutamente personali per riprodurre grandi capolavori del passato e soggetti tratti dal mondo dei media, in una contaminazione tra alto e basso che riguarda i soggetti ma si esprime sopratutto nello stridente (e sorprendente) contrasto tra la bellezza dei capolavori riprodotti e la povertà dei media impiegati. L’approccio è ironico, irriverente.
Nella serie Pictures of Junk, l’artista parte dai rifiuti recuperati nelle immense discariche brasiliane, come l’infernale Jardim Gramacho, la discarica a cielo aperto più grande del mondo nei pressi di Rio; nei capannoni adiacenti, aiutato dai catadores, dispone stracci, barattoli, copertoni, bottiglie, resti di cibo in colossali installazioni effimere che riproducono le fattezze di celebri capolavori, dalla Primavera di Botticelli alla Morte di Marat di David, dalla Leda e il cigno di Leonardo, alla Atalanta e Ippomene di Reni. Non mancano i ritratti di alcuni suoi collaboratori a sottolineare l’impegno sociale e l’intento di denuncia che comunque accompagna tutta la sua opera e culmina con il documentario Waste Land (2010) che parla proprio delle condizioni di vita dei catadores brasiliani. La creazione più grande rimane WWW (World Map) (2008), un planisfero realizzato con vecchi computer e materiale informatico dismesso. In ogni caso, di questi lavori restano soltanto le curatissime, e a volte ritoccate, foto scattate dall’artista.
Il lavoro di Muniz non può essere sbrigativamente derubricato come «trash art». L’artista usa tutti gli strumenti concettuali di quella che Nicolas Borriaud chiama «postproduction», creando lavori a partire da materiali esistenti e di recupero, da stili e forme storicizzate, da celebri opere del passato, dal repertorio di forme e immagini offerto dalla società e dai media. L’artista preleva, campiona, cita, elabora, manipola e iscrive l’opera così prodotta all’interno di una rete aperta di significati nuovi.
Per dare forma alle sue opere, negli anni ha impiegato anche altri materiali, generi alimentari come burro d’arachidi (Double Mona Lisa, After Warhol, 1999), zucchero caramellato, marmellata, cioccolata (Pollock Action Photo (After Hans Namuth), 1997) e persino gli avanzi in un piatto di pasta (Untitled (Medusa Plate), 1999). Più recentemente ha recuperato ritagli di riviste e giornali per le serie Picture of Magazine (es. A Bar at the Folies Bergere After Edouard Manet, 2012; Obama, 2012). Il materiale usato rimanda sempre ad un livello di significato superiore: così nella serie “Sugar Children” (1996), dove lo zucchero bianco su carta nera rimanda alle piantagioni di zucchero dei caraibi dove erano impiegati anche bambini, o nella serie “Pictures of dust” (2000), riproduzioni di sculture minimaliste del Whitney Museum, realizzate con la polvere raccolta negli stessi spazi museali.

Vik Muniz, New Car, Album, 2014, digital c-print. Courtesy of the artist and Sikkema Jenkins & Co. © Vik Muniz, by SIAE 2019

Il lavoro di Adriana Varejão (Rio de Janeiro, 1964) si distingue per il continuo e sistematico sviluppo di alcuni motivi sui quali convergono temi legati alla storia del Brasile – e del mondo latinoamericano in generale – e a particolari momenti della storia dell’arte, dal modernismo alle avanguardie. Varejão, non solo metaforicamente, va a scavare sotto la superficie delle cose, lacera il rivestimento con il quale si è ammantato un mondo, un’intera cultura, nascondendovi un sostrato di violenza sfruttamento e sopraffazione. L’azulejo è il tipico ornamento dell’architettura portoghese e spagnola che diventa ora protagonista assoluto nelle opere dell’artista brasiliana: le superfici smaltate e decorate degli azulejos hanno rivestito edifici coloniali in mezzo mondo e sono diventati uno dei tratti più caratteristici della diffusione della cultura iberica. Ma il vero motore della diffusione di questa cultura, la storia ce lo ricorda, è stato il sangue. La «spada e la croce» si sono piantate nelle carni di popoli che hanno avuto come unica scelta il piegarsi o lo scomparire. E carne e viscere, budella e tessuti connettivi dilaniati, fasci muscolari e grumi di materiale ematico rappreso, erompono dalle lacerazioni praticate nelle superfici regolari, che Varejão dipinge con effetto trompe l’oeil a creare porzioni di muri di cinta, interni domestici, vasche o piscine, tutti illusionisticamente rivestiti a piastrelle (es. Azulejaria Azul em Carne Viva, 1999). Tutto è reso attraverso la pittura anche quando il quadro si espande nello lo spazio e diventa scultura. L’artista sembra anzi esplorare le contaminazioni e le tangenze tra le due tecniche e la scultura si mantiene sempre nella bidimensionalità più marcata, nel verticalismo del muro (es. Azulejaria de Tapete sobre Telas, 1999, oppure Celacanto provoca maremoto, 2004). Allo stesso modo la freddezza geometrica dei rivestimenti si giustappone alla materia informe, la bellezza barocca delle decorazioni all’innegabile seduzione mista a repulsione che la carne suscita. È colta Adriana Varejão e si ripetono qua e la omaggi al Modernismo, all’opera di Fontana e Burri e all’Espressionismo, particolarmente nella sua declinazione astratta. Oltre alle superfici decorate con azulejos ci sono anche piatti in ceramica e legno – che fanno riferimento in modo altrettanto esplicito alla storia coloniale latinoamericana o alla tradizione cinese – che subiscono la stessa operazione di incisione e resezione come le serie “Terra incógnita” (es. Mapa de Lopo Homem II, 1992-2004) o si aprono alle più seducenti evocazioni materiche, come nella serie “Pratos” (es. Prato com mariscos, 2011).
Le crettature del colore, la crepa dell’intonaco, il velo d’acqua: tutto rimanda ad un oltre, tutto ricorda la complessità al di sotto dell’apparenza semplice e confortevole, la realtà nascosta dietro il mondo asettico e apparentatemene rassicurante che trova nei bagni e nelle terme, non a caso, l’espressione più ricorrente e recente nella produzione dell’artista. Si veda a tal proposito la serie “Saunas e banhos (2004-09), nella quale l’astrattismo si dissolve in una delicatissima pittura decorativa ammantata di inquietanti tensioni surrealiste e «narrative» (es.The Guest, 2004 o The Rosa, 2009).

CILDO MEIRELES – Nato a Rio de Janeiro nel 1848 a dieci anni Cildo Meireles si trasferisce a Brasilia dove frequenta la District Federal Cultural Foundation. Nel 1968 torna a Rio e qui si avvicina ai protagonisti di Tropicália, movimento fortemente politicizzato e che tra i suoi obiettivi indagava sulla fruizione sensoriale dell’opera d’arte. Tra le collettive si segnalano le ormai storiche le Magiciens de la Terre al Centre George Pompidou di Parigi (1989), Information al MoMA di New York (1970) e From Body to Heart al Palacio des Artes di Belo Horizonte (1970). Tra le molte personali si ricordano quelle al Museo de Arte Miguel Urrutia a Bogotà (2019), al Museo National Reina Sofía di Madrid (2013), al Museo Serralves di Oporto (2013), all’Hangar Bicocca di Milano (2014), alla Tate Modern di Londra (2008), al Kunstreverein di Amburgo (2004), al Miami Art Museum (2003), al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris (1993), al New Museum di New York (1999), all’IVAM di Valencia (1995) e all’ICA di Boston (1995), all’ICA di Londra (1990), Eureka/Blindhotland al Museo di Arte Moderna di Rio de Janeiro (1975). È rappresentato dalle gallerie Lelong & Co di New York e Parigi, Luisa Strina di San Paolo, Sprovieri di Londra e dalla Galleria Continua di San Gimignano. Vive e lavora a Rio de Janeiro.

BEATRIZ MILHAZES – Nata a Rio de Janeiro nel 1960, Beatriz Milhazes ha studiato arte all’Accademia di Parque Lage, dove ha anche insegnato per dieci anni. Tra le mostre personali più importanti si ricordano Using Walls, Floors, and Ceilings: Beatriz Milhazes al Jewish Museum di New York (2016), Coleção de Motivos all’Espaço Cultural Unifor de Fortaleza (2015), Beatriz Milhazes. Jardim Botanico al Peréz Art Museum di Miami (2014), Alimentário – Arte e patrimônio alimentar brasileiro al Museu de Arte Moderna di Rio de Janeiro (2014), Meu Bem al Paco Imperiale di Rio de Janeiro (2013), Panamericano al MALBA – Fundacion Costantini di Buenos Aires (2012), le personali alla Fondazione Beyeler di Basilea, alla Calouste Gulbenkian Foundation di Lisbona (2011), alla Fondatione Cartier di Parigi (2009), Beatriz Milhazes – Pinturas e Colagens alla Pinacoteca do Estação di Sao Paolo (2008), Mares do Sul al Centro Cultural Banco do Brasil di Rio de Janeiro (2002), Artist’s Book Project: Coisa Linda (Something Beautiful) al Museum of Modern Art di New York (2002). I suoi lavori sono stati presentati anche alla 16th Biennale of Sydney (2008), alla Biennale di Shanghai (2006) e alla 24ae 26a Bienal de São Paulo (1998 e 2004). L’artista ha rappresentato il Brasile alla 50a Biennale d’Arte di Venezia (2003). Galleria di riferimento sono la James Cohan Gallery di New York, White Cube di Londra, Max Hetzler di Berlino. Vive e lavora a Rio de Janeiro.

VIK MUNIZ – Vicente José de Oliveira Muniz è nato a San Paolo nel 1961, dove ha lavorato come grafico pubblicitario. A seguito del risarcimento per una ferita da colpo di pistola si trasferisce negli Stati Uniti e inizia la sua carriera d’artista. Dagli anni Novanta ha tenuto numerose mostre in tutto il mondo. Tra le più recenti e importanti si ricordano Verso al Belvedere Museum di Vienna (2018), Afterglow: Pictures of Ruins a Palazzo Cini a Venezia (2017), Vik Muniz allo High Museum of Art di Atlanta e all’Indiana University of Art Museum di Bloomington (2016), Closer to the Image al Museum of Contemporary Art di Lima e al Centro de Arte Contemporáneo de Quito (2014), Clayton Days | Revisited: A Project by Vik Muniz al Frick Art Historical Center di Pittsburgh (2013), VIK al Centro de Arte Contemporánea de Málaga (2012), la personale al Museum of Modern Art di Rio de Janeiro (2009), Artist’s Choice: Vik Muniz, Rebus al MoMA di New York (2008), Reflex al Seattle Art Museum (2006) e al P.S.1 Contemporary Art Center di New York (2007), la mostra al MACRO di Roma (2003), The Things Themselves: Pictures of Dust by Vik Muniz al Whitney Museum di New York (2001). Insieme a Ernesto Neto è stato responsabile del Padiglione del Brasile alla 49a Biennale d’Arte di Venezia (2001). Nel 2015 ha presentato Lampedusa alla 56a Biennale di Venezia. Il suo documentario Waste Land (2010) è stato candidato agli Oscar e ha vinto il Sundance Audience Award per il Migliore Film. Recentemente è stato nominato ambasciatore di buona volontà dell’UNESCO. Gallerie di riferimento sono Ben Brown Fine Art di Londra e Sikkema Jenkins & Co. di New York. Vive e lavora tra New York e Rio de Janeiro.

ADRIANA VAREJÃO – Adriana Varejão è nata a Rio de Janeiro nel 1964. Tra le mostre personali in prestigiose sedi internazionali si ricordano Adriana Varejão all’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici (2017), Adriana Varejão: Pele do Tempo alla Fundação Edson Queiroz di Fortaleza (2015), Adriana Varejão all’ICA di Boston (2014), Histories at the margins al Museu de Arte Moderna do Rio de Janeiro (2013) e al MALBA di Buenos Aires (2012), Adriana Varejão al Museu de Arte da Pampulha di Belo Horizonte (2008), la personale al Hara Museum of Contemporary Art di Tokyo (2007), Chambre d’échos / Câmara de ecos alla Fondation Cartier di Parigi (2005), al Centro Cultural de Belém di Lisbona (2005) e al DA2 di Salamanca (2005), Azulejões al Centro Cultural Banco do Brasil di Rio de Janeiro e di Brasília (2001), la personale al Bildmuseet di Umeå (2000). Il lavoro di Varejão è stato presentato alla 12a Biennale Internazionale di Istanbul (2011), alla Biennale di Liverpool (1999 e 2006), alla 46ª Biennale d’Arte di Venezia (1995) e alla 22a e 24a Bienal de São Paulo (1994 e 1998). Nel 2008 l’Instituto de Arte Contemporânea Inhotim (Belo Horizonte) ha aperto un padiglione permanente dedicato al suo lavoro. Adriana Varejão ha ricevuto la medaglia di Chevalier des Arts et Lettres dal Governo francese (2008), è stata insignita dell’Ordem do Mérito Cultural dal Ministero della Cultura brasiliano (2011) e ha vinto il Grande Prêmio da Crítica, Visual Arts, dall’APCA di São Paulo (2012). È rappresentata dalle gallerie Lehmann Maupin di New York e Victoria Mirò di Londra. Vive e lavora a Rio de Janeiro.


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