Nato a Beijing, Cina, nel 1972
Vive e lavora a Beijing
Le opere di Liu Wei vedono l’impiego di materiali diversi, spesso insoliti, attraverso i quali l’artista sviluppa alcune serie di lavori coerenti che affrontano in modo critico temi di grande attualità come il rapporto dell’individuo con il potere, il ruolo dell’architettura nello sviluppo del paesaggio urbano, la libertà di espressione dell’artista. La geometria e i rapporti matematici, spesso studiati e sviluppati con il supporto di strumenti informatici, sono una costante di molte installazioni e opere pittoriche.
Indigestion II (2004) è un escremento a misura d’uomo, lungo oltre due metri, che se a prima vista ha tutto il colore e a l’iridescenza di un vero bastone fecale, ad un esame più attento si vede composto di soldatini giocattolo ed altri piccoli oggetti di plastica, scarto della società dei consumi: repellente e coinvolgente allo stesso tempo questo lavoro ben rappresenta la doppia natura sensazionalistica e impegnata dell’artista cinese.
Love it, Bite it I (2006-7) fa parte della serie di riproduzioni tridimensionali di edifici governativi delle principali capitali mondiali, realizzati impiegando e rimodellando chili di snack dentale per cani già masticato. Con lo stesso materiale Wei ha realizzato Big dog (2016, Quatar Museum, Doha), una città immaginaria di grattacieli, facciate di edifici e colonne decorate che formano un vasto paesaggio distopico; la tonalità degli oggetti emula qui l’ambiente desertico che circonda la capitale del Quatar. In entrambi i casi si stabilisce un parallelo tra il desiderio dei cani di mordere e la ricerca tutta umana del potere; l’opera sviluppa una lunga riflessione sul rapporto tra l’artista, e in generale il cittadino, e il potere politico. Spetta all’artista il compito di esprimersi ed esprimere, senza censure o condizionamenti legati all’ideologia, alla storia o alla fede. The Outcast (2007) è un’imponente installazione, quasi una grande serra ermeticamente chiusa, realizzata combinando porte e finestre recuperate da edifici pubblici abbattuti; i telai hanno il tipico colore verde chiaro dei muri delle scuole e degli ospedali cinesi; l’arredo e i telefoni all’interno suggeriscono si tratti di qualche sala conferenze o di un luogo d’incontro al quale però l’accesso rimane inesorabilmente negato; dei ventilatori elettrici fanno turbinare la povere e dei fogli di carta. Questo lavoro ancora una volta ci parla di un paese, la Cina – ma la riflessione potrebbe estendersi a moltissimi altri paesi al mondo –, dove la libertà individuale è quotidianamente negoziata e sottoposta troppo spesso a restrizioni e controllo e dove i soggetti non hanno reale voce in capitolo nella gestione del «sistema».
La serie “As Long As I See It” (2006) mette in scena un altro meccanismo di controllo, quello offerto dalla riproduzione di immagini della realtà: la serie presenta delle fotografie di oggetti quotidiani che accompagnano gli stessi oggetti «mutilati» delle parti che non compaiono nei limiti della foto. Solo quello che viene mostrato riprodotto sembra esistere davvero, ma la realtà è ben altro e ben più complessa di quello che una polaroid può inquadrare.
L’interesse per l’architettura e le geometrie torna in lavori come Golden Section (2011), dove forniture di arredo sono sezionate da pesanti fogli di metallo secondo precisi ed eleganti rapporti matematici (sezione aurea), perdendo però ogni funzione pratica, o Library II-II (2013), una serie di sculture che riproducono porzioni di centri urbani realizzati impilando, incollando e sagomando libri. La forma morbida e irregolare di un asteroide, isolata ed enigmatica, è invece l’assoluta protagonista di The Stone (2006), realizzato sempre incollando centinaia di libri poi perfettamente sagomati.

Parallelamente Liu Wei affronta il più classico dei media, la pittura, partendo però da motivi generati da programmi di grafica, trasferiti poi su tela, dipinti dagli assistenti di studio (Colors No. 13, 2013, oppure Sandwiches No. 13, 2015).
Geometrie pure ed echi delle scenografie futuriste e costruttiviste, Depero e Moholy-Nagy, esplodono in Microworld (2018) che mette in scena il mondo dell’infinitamente piccolo: sfere e forme arrotondate in alluminio colorato ricordano molecole e atomi che si gonfiano di fronte allo spettatore, tenuto a debita distanza da una grande teca di vetro.

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Nato a Beijing nel 1972, Liu Wei si è laureato alla Accademia Nazionale di Belle Arti di Hangzhou nel 1996. Nel 1999 è stato esponente di un collettivo di artisti che ha organizzato la mostra Post-Sense Sensibility: Alien Bodies and Delusion, a cura di Qiu Zhijie. Tra le più importanti mostre personali si ricordano quelle al Museum of Contemporary Art di Cleveland (2019),Panoramaal PLATEAU – Samsung Museum of Art di Seoul (2016), Liu Wei: Colorsallo UCCA – Ullens Center for Contemporary Art di Beijing (2015), Sensory Spaces 4al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam (2014), Myriad Beingsal Today Art Museum di Beijing (2012), Diversion Era: Liu Weialla CAN Foundation di Seoul (2010), Love It, Bite Ital China Art Archives and Warehouse di Beijing (2007), Property of Liu Weial Beijing Commune (2006), Liu Weialla Courtyard Gallery di Beijing (2005). I suoi lavori sono stati presentati tra l’altro alla 51ae 58a Biennali d’Arte di Venezia (2005, 2019), alla Biennale de Lyon (2015), alla 4th Guangzhou Triennial (2012), alla Shanghai Biennale (2010) e alla Busan Biennale (2008). È rappresentato dalle gallerie Lehmanh Maupin di New York Hong Kong e Seoul, Sean Kelly di New York, White Cube di Londra e Long March Space di Beijing.
Riferimenti bibliografici
Philip Tinari, Rigid Compromises: Liu Wei Art and Hard Reason, in “Art in Asia”, gennaio-febbraio 2015, pp. 31-47
Angie Baecker, Liu Wei. Minsheng Art Museum, in “Artforum”, settembre 2011
Gunnar B. Kvaran, Liu Wei: The Creative Gesture in Guo Xiaoyan, Gunnar Kvaran [a cura di], Liu Wei Trilogy, Charta, Beijing 2012
Carol Yinghua Lu, Liu Wei, in May You Live in Interesting Times. Guida Breve, La Biennale di Venezia, Venezia 2019
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