Nato a Chester, Gran Bretagna, nel 1976
Vive e lavora tra il Suffolk e Londra
Quella di Ryan Gander è un’arte fatta di storie raccontate attraverso oggetti artistici, installazioni e video e attraverso un continuo lavoro di ricerca, confronto ed elaborazione che arriva fino alla curatela di mostre d’arte, all’organizzazione di conferenze e incontri, alla pubblicazione di libri o alla realizzazione di documentari. Il suo lavoro è legato a pratiche concettuali consolidate ma l’esperienza, la partecipazione e la testimonianza delle persone assumono un ruolo centrale. L’attenzione si rivolge così verso i grandi temi della società contemporanea, con continui riferimenti alla storia e al mondo dell’arte, ai sistemi di comunicazione e ai modi di apparire propri dell’arte stessa (mostre e fiere, gallerie e musei, la ricezione dell’arte da parte dei media e del pubblico). Ma non solo. Artista tra i più quotati e stimati, Gander mantiene oggi una certa distanza dagli ambienti più glamour e questo punto di vista privilegiato, forse, consente un’attenzione e una comprensione più profonda del sistema dell’arte contemporanea.
In generale, la scelta dei temi e il modo di trattarli denota un approccio irriverente e giocoso che porta gli spettatori in situazioni inaspettate, aprendoli a nuovi modi di vivere l’arte. A prima vista astratti e un po’ cervellotici, difficili da comprendere senza la giusta chiave di lettura, i lavori di Gander sono sempre infusi di meraviglia infantile e curiosità incontenibile.
Out of Sight (All On My Own) (2011), presentato alla 54a Biennale d’arte di Venezia, consiste in due bronzetti identici raffiguranti due ragazze nude inginocchiate che si guardano assorte, come specchiandosi l’una nell’altra: il ruolo dello sguardo, i riferimenti alla storia dell’arte – palese è la citazione di Degas – la presa di distanza da una strategia espositiva ricercata e un’embrionale riflessione sul narcisismo sono temi che emergono con evidenza. Sempre nella stessa Biennale Gander ha presentato altri due lavori iconici: The Artwork Nobody Knows (2011), il suo primo autoritratto affidato a un iperrealistico e autoironico bambolotto che lo raffigura caduto dalla sedia a rotelle, e We never had a lot of € around here (2011), una moneta da venticinque euro incollata al pavimento, come fosse stata coniata nel 2036 e il cui valore era stimato in base ad una proiezione del tasso d’inflazione di allora. Nuova versione di We never had a lot of $ around here (Solomon R. Guggenheim Museum, 2010), queste monete del futuro riflettono sui temi del valore del denaro e delle aspettative sul domani.
Human’s being human (blue on yellow) (2012) è la gigantografia di una giovane modella francese sorpresa mentre contempla un dipinto in cui è rappresentato un cerchio giallo su fondo bianco: anche qui, in un gioco caleidoscopico, si riflette su temi come lo sguardo dell’osservatore, i codici pubblicitari, l’approccio invadente dei media, il carattere auratico dell’opera d’arte, la relazione estetica.

Concettuale e geniale la serie “Alchemy Box” (2012) ironizza sulla curiosità, l’educazione e la fiducia presenti nei visitatori delle mostre: le scatole sono sigillate e contengono oggetti che sono segnalati al pubblico soltanto grazie a una lista affissa vicino l’opera. L’unico modo per verificare la presenza reale degli oggetti sarebbe lacerare la scatola e distruggerla irreparabilmente.
Di grande interesse e molto attuali sono i lavori che vedono l’impiego di resina a imitazione del marmo bianco. Tell my mother not to worry (I) (2012) riproduce la figlia dell’artista di due anni con un lenzuolo sulla testa, così da assumere le sembianze di un fantasma. Prima di una serie di opere che seguiranno la crescita di Olive (es. la serie “I is…”, 2015), la scultura rimanda alle più classiche raffigurazioni del marmo drappeggiato e allo stesso tempo inserisce elementi della sfera personale dell’artista. La citazione al passato accompagna anche lavori come Retrospective Study for Dramaturgical Framework (Torso of a youthful athletes next move, with elongated armature) (2019).
Good Heart (2018) è il progetto realizzato a Firenze per BASE – Progetti per l’arte nel 2018 e che consiste in un gruppo di sculture che rimandano chiaramente alla serie concettuale “Incomplete Cube Sculptures” di Sol LeWitt: si racconta che l’artista minimalista americano decise di esporre questo lavoro, inizialmente pensato come una struttura per far arrampicare il suo gatto, per puro caso, dopo l’apprezzamento di un ospite che la vide nel suo appartamento. Parte integrante del lavoro di Gander è stata, la sera dell’inaugurazione, la presenza di gatti che hanno interagito con le sculture riportandole alla loro “funzione” originaria. È un esempio di “creatività accidentale” ed è una riflessione su cosa si intende per arte e come questa si possa definire tale solo dopo un’operazione di riconoscimento – riflessione meno complessa di quella di un George Dickie (teoria istituzionale dell’arte) o di un Arthur Danto (definizione essenzialista dell’arte) ma di certo più divertente.

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Ryan Gander è nato a Chester, Regno Unito, nel 1976. Ha studiato alla Manchester Metropolitan University (1996-1999), alla Jan van Eyck Akademie di Maastricht (1999-2000) e alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam (2001-2002). È professore di Arti Visive all’Università di Huddersfield e dottore honoris causa alla Manchester Metropolitan University e alla University of Suffolk. Tra le mostre più importanti si ricordano le personali The 500 Million Year Collaboration alla Kunsthalle Bern (2019), Good Heart al BASE – Progetti per l’arte di Firenze (2018), Dazaifu Tenmangu. Collection works by Ryan Gander al Santuario Dazaifu di Fukuoka (2017), These wings aren’t for flying al National Museum of Art di Osaka (2017), Soft modernism alla Hyundai Gallery di Seoul (2017), Human / non Human / Broken / non Broken alla CC Foundation di Shanghai (2017), Heterotopias al Musées de la Ville de Strasbourg (2016), To stand amongts the element and to interpret what one knows al Museum Dhondt-Dhaenens di Deurle (2016), Portrait of a blind artist obscured by flowers al Singapore Tyler Print Institute (2015), Ryan Gander: READ ONLY all’Australian Centre of Contemporary Art di Melbourne (2015), Make every show like it’s your last al Frac Île de France – Le Plateau di Parigi (2013), alla Manchester Art Gallery (2014), alla Contemporary Art Gallery di Vancouver, all’Aspen Art Museum (2015) e al Musée d’art contemporain di Montréal (2016), Esperluette al Palais de Tokyo di Parigi (2012), Boing, Boing, Squirt al Museo Tamayo Arte Contemporáneo di Città del Messico (2012), Lost in my own recursive narrative alla Fondazione Morra Greco di Napoli (2012), Icarus Falling, An Exhibition Lost alla Maison Hermès – Le Forum di Tokyo (2011), Intervals: Ryan Gander al Solomon R. Guggenheim Museum di New York (2010). Ha partecipato alla 10th Liverpool Biennial (2018), alla 12a Bienal de la Habana (2015), alla 9th Shanghai Biennale (2012), a Documenta 13 a Kassel (2012) e alla 54a Biennale d’arte di Venezia (2011). Nel 2006 ha ricevuto il Dena Foundation Art Award per il suo impegno in progetti di forte rilevanza sociale e nel 2017 è stato nominato Officer of the Order of the British Empire. È rappresentato dalle gallerie Ester Schipper di Berlino, Gb Agency di Parigi, Taro Nasu di Tokyo e Lisson Gallery di Londra, New York e Shanghai.
Riferimenti bibliografici
Eleanor Morgan, Ryan Gander on the hell of selfies: ‘The world has gone mad’, in “The Guardian”, 18 marzo 2019
Payal Uttam, Outside the Box, in “Prestige Hong Kong”, 7 luglio 2017
Isabella Santangelo, Ryan Gander, in “Il Giornale dell’Arte” #318 (marzo 2012), https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/ryan-gander/112307.html
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