L’India è il settimo Stato per estensione geografica al mondo e il secondo più popolato, con oltre 1.300.000.000 abitanti; è la dodicesima più grande economia planetaria e la seconda a più rapida crescita. Tutto questo inevitabilmente ha avuto e continua ad avere un riscontro diretto nel panorama artistico con il mercato dell’arte indiano che è letteralmente esploso nei primissimi anni del nuovo millennio: principale centro è New Delhi. Gli artisti indiani, anche se ogni generalizzazione è oggi quanto mai pericolosa e fuorviante, si distinguono subito per una certa generale «ricchezza»: ricchezza cromatica, ricchezza di significati, potenza suggestiva, ricchezza decorativa, ricchezza di rimandi alla tradizione e alla storia.

Visivamente potente e originale, l’arte di Subodh Gupta impiega materiali quotidiani per veicolare con amarezza messaggi politici attuali e universali. La produzione più celebre dell’artista si caratterizza per la realizzazione di imponenti sculture ottenute con l’accumulo di contenitori, barattoli e utensili da cucina in acciaio inox (su tutti le inconfondibili marmitte porta-pranzo): il risultato sono sculture figurative, come il celebre teschio di Very Hungry God (2008) o accumulazioni astratte, memori dei lavori di Arman, Koons e Damien Hirst.
L’arte di Gupta tuttavia presenta da sempre anche installazioni complesse nelle forme e nei materiali che le compongono e che quasi sempre guardano alla tradizione indiana e al dialogo tra questa e l’Occidente. Il linguaggio dell’arte è universale. L’oggetto presentato diventa un’icona che nella sua semplicità racchiude significati complessi, sovrappone l’impatto estetico immediato e accattivante ai rimandi più o meno diretti a un sistema culturale complesso ma comunque subito comprensibile: emerge il rapporto tra tradizione e innovazione e, ancora, il confronto tra oriente e occidente. Uno dei temi più ricorrenti nei lavori di Gupta è la paura dovuta alle lunghe tensioni che sono esplose in passato tra India e Pakistan e alla minaccia nucleare che ne è seguita. Non è un caso che i riferimenti al mondo militare siano ricorrenti. Gandhi’s Three Monkeys (2007-08) si ispira al messaggio di pace e tolleranza diffuso da Gandhi attraverso la metafora delle tre scimmie che invitano a «non parlare del male… non sentire il male… non vedere il male»: tre teste in bronzo e stoviglie di latta rappresentano altrettante teste di militari con elmo, balaclava e maschera antigas. Se l’acciaio inossidabile è il mezzo distintivo di Gupta, l’artista lavora ormai anche con bronzo, marmo, ottone, legno e altri materiali di recupero e con objets trouvés. Anche come pittore Gupta riprende soggetti quotidiani, oggetti domestici, cibi, e trasferisce sulla tela, con stile iperrealistico, la materialità del metallo e degli altri oggetti impiegati nelle sculture-installazioni.

Subodh Gupta, Ali Baba, 2011, wood, steel, stainless steel utensils, aluminum, lights, wire, 12 × 47,25 m. Installation view Galleria Continua, Les Moulins 2016. Photo: Oak Taylor-Smith.
Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana

Il lavoro Bharti Kher ruota attorno ad alcuni temi forti che sono da sempre al centro della poetica dell’artista indiana e che vengono declinati attraverso molteplici mezzi espressivi praticati tutti con coerenza e sapienza tecnica. L’esperienza personale e le suggestioni di una vita trascorsa tra l’Inghilterra e l’India diventano spunto per una riflessione generale sui temi del colonialismo, della società e delle tradizioni indiane, inclusa la relazione uomo-donna e quella del tutto particolare tra umani e animali, portata avanti con curiosità e desiderio di comprendere le più diverse dinamiche sociali.
Le opere pittoriche della Kher, che parte come formazione dal minimalismo, sono magnifiche opere astratte, dalle cromie accattivanti; sono realizzate attraverso la giustapposizione di bindi, le tipiche decorazioni indiane che adornano la fronte delle donne sposate. La ripetizione seriale di questo motivo discreto, come un pixel, va riprodurre immagini astratte e, più raramente, figurative. Ci sono echi dell’arte di Yayoi Kusamama e dei suoi “dots”, ora declinati secondo i costumi indiani. In altre composizioni, i bindi lasciano spazio, alla ripetizione del simbolo che campeggia al centro della bandiera dell’India (la Ashoka Chakra, «la ruota della vita buddista») o si evolvono in un altrettanto caratteristico motivo vermiforme che, come liquido spermatico, va a ricoprire non solo le tele ma anche alcune sculture in resina: il famoso elefante di The skin speaks a language not its own (2006) o il cuore di An Absence of Assignable Cause (2007) ne sono completamente ricoperti.
Diversa, ma strettamente connessa come poetica, è la produzione d’installazioni di object trouvé, raccolti per il loro valore e il carico di vissuto esistenziale che portano con sé e combinati, con grande libertà ed eclettismo, in composizioni mai scontate e in grado di veicolare nuovi significati imprevisti e anticonformisti. In alcune installazioni sono i bangles, i caratteristici bracciali delle donne indiane (Bloodline, 2000), in altre i sari, i coloratissimi tessuti in cotone, a richiamare la terra dell’artista (es. Dominate, 2011 o Disturbia, utopia, house beautiful, 2011).
Posture e attributi dei soggetti raffigurati nelle sculture in resina fanno altrettanto (es. The Messanger, 2011) con un palese rimando alla statuaria induista.

Altro artista che vive e lavora nella più grande città indiana, Mumbai, è Jitish Kallat. Il suo lavoro è strettamente influenzato dal contesto che lo circonda: l’enorme distesa urbana abitata da milioni di persone, di diverse estrazione sociali e stili di vita, è lo scenario del confronto/scontro tra tradizione indiana e costumi occidentali, arretratezza e progresso. Tutto questo è immediatamente visibile nello stesso tessuto urbano della città che sembra un patchwork di stili architettonici e modalità costruttive diverse. L’arte di Kallat presenta spesso i protagonisti o meglio le comparse di questa umanità brulicante e tendenzialmente oppressa, dando loro una singolarità e un’evidenza che diventa riscatto. Colori potenti, siluette ben definite, superfici campite con pattern decorativi giustapposti con violenza, rimandi evidenti alla storia dell’arte.
L’artista utilizza media diversi, pittura, scultura, fotografia, installazione e ha spesso accompagnato i suoi dipinti con frammenti bronzei provenienti dalla storica stazione di Victoria Terminus nel centro di Mumbai (Untitled (4PM) / 2 Leaves and 18 Clouds, 2011-12).
I suoi lavori sono caratterizzati da un’ironia estrema e da una leggerezza accattivante. Quest’ironia «grottesca, burlesca e arabesca a un tempo» prorompe anche dalla serie di sculture in resina che riproducono i mezzi di trasporto meccanizzati dell’India degli anni Settanta, realizzati ricomponendo ossa di fantomatici animali preistorici. Creando questo visionario museo paleontologico della motorizzazione indiana l’artista ci parla della rapidità del progresso e al tempo stesso allude alla morte e alla mortalità: i mezzi riprodotti sono tratti dalla sua serie di foto di veicoli bruciati durante i tumulti del 1992-93. Autosaurus Tripous (2007) ad esempio riprende le forme dei celebri Tuk-Tuk a tre ruote per il trasporto di persone nelle affollate vie delle città indiane. Nel lavoro fotografico Conditions Apply 2 (2010) le immagini ripetute di pani roti, progressivamente più anneriti fino a scomparire, imitano le fasi lunari, rappresentano i cicli della vita e lo scorrere del tempo, soggetto questo ricorrente anche in altri lavori come Wind Study (The Hour of the day of the Month of the Season) del 2015.

Grande maestro dell’arte contemporanea indiana, Atul Dodiya ha saputo fondere le suggestioni provenienti dalla storia del suo paese con gli strumenti e il linguaggio internazionale dell’arte, arrivando a gettare nuovi ponti tra l’arte indiana e quella occidentale. Nei dipinti e negli assemblage l’artista trova i suoi soggetti nello sconfinato universo iconografico della cultura popolare: dai fatti di cronaca ai protagonisti della scena politica, dai ritratti degli attori di Bollywood alle presenze più o meno ricorrenti nei rotocalchi televisivi, dalle grandi opere della storia dell’arte del passato (e del presente) ai grandi personaggi storici. Poster, riviste patinate, fotografie di studio, illustrazioni sono il materiale di partenza che Dodiya riprende e combina con ironia e indiscussa eleganza grafica. Le immagini si stratificano in un palinsesto accattivante che incuriosisce per le molteplici possibilità di lettura che offre e per gli accostamenti che, con sorprendente sarcasmo e molta leggerezza, spiazzano e sorprendono lo spettatore.
Al centro di tutto c’è sempre molto dell’esperienza personale dell’artista, sensibilità raffinata che seleziona e filtra, accosta ed elabora. L’insolito supporto che ha reso celebre la sua produzione sono le saracinesche metalliche, che Dodiya dipinge con le sue immagini: un realistico bianco e nero fotografico copre parzialmente immagini colorate e cacofoniche pronte a scomparire e a riapparire dietro la lamiera dipinta, generando uno stridente e potente contrasto.
Più di recente la produzione di Dodiya si è spostata verso la citazione, attraverso il recupero di soggetti o di stili dei grandi maestri della pittura: operazione che è un omaggio a quelli che sono stati i suoi riferimenti artistici ma che è anche un “gioco delle parti” nel quale il reenactment diventa il modo per mostrare aspetti dello stile (e della personalità) intimamente propri dello stesso Dodiya. Ad esempio la composizione strutturata in rettangoli e il bersaglio che si intravede in uno di essi, rendono Fool’s House (2009) un omaggio diretto a Jasper Jones. In Sea-Bath (Before Breaking the Salt Law), Dodiya raffigura Gandhi alla fine della Marcia del sale del 1930, atto di protesta pacifica contro l’Impero Britannico; la figura di un uomo che si toglie la maglia è diretta citazione del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca.

Atul Dodiya, Sea-Bath (Before Breaking the Salt Law), 1998, watercolor on paper, 76 × 56 cm. Photo: Federico Gavazzi. Courtesy of the artist.

SUBODH GUPTA – Nato a Khagaul in India nel 1964, Subodh Gupta è cresciuto nel Bihar, uno degli stati più arretrati dell’India, ma importante centro per la trasmissione della cultura buddista. Ha conseguito il BFA al College of Arts and Crafts di Patna. Tra le più importanti esposizioni personali segnaliamo: Adda/Rendezvous a La Monnaie de Paris (2018), Guests, Strangers and Interlopers’ allo SCAD Museum of Art di Savannah GA (2016), Subodh Gupta. Everyday Divine alla National Gallery of Victoria di Melbourne (2016), When Soak Becomes Spill al Victoria & Albert Museum di Londra (2015), Everything Is Inside alla National Gallery of Modern Art di New Delhi (2014), The Imaginary Order Of Things al Centro de Arte Contemporaneo di Malaga (2013), Spirit Eaters al Kunstmuseum Thun (2013), Critical Mass al Tel Aviv Museum (2012), Line Of Control al Kiran Nadar Museum di New Delhi (2012), Et Tu Duchamp? alla Kunsthalle di Vienna (2010), Line Of Control alla Arario di Pechino (2008), GreyZones alla Academy of Fine Arts and Literature di New Delhi (1995). Ha partecipato alla 51a Biennale d’arte di Venezia (2015). È rappresentato dalle gallerie Hauser&Wirth di Londra, Nature Morte di Nuova Delhi, dalla Galleria Continua di San Gimignano. Vive e lavora a New Delhi.

BHARTI KHER – Nata a Londra nel 1967, Bharti Kher ha studiato a Newcastle ed è tornata in India nel 1885, dopo il suo matrimonio. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive come Chimeras al Pasquart Kunsthaus Centre d’Art di Biel (2018), Points de départ, points qui lient alla DHC/ART Foundation for Contemporary Art di Montreal (2018), Dark Matter (MM) al Museum Frieder Burda Salon di Berlino (2017), This Breathing House al Freud Museum di Londra (2016), BHARTI KHER Matter alla Vancouver Art Gallery (2016), Not All Who Wanders Are Lost alla Isabella Stewart Gardner Museum di Boston (2015), Misdemeanors al Rockbund Art Museum di Shanghai (2014) Bharti Kher alla Parasol Unit di Londra (2012). Ricordiamo anche le collettive Paris–Delhi–Bombay al Centre Pompidou di Parigi (2011), Tokyo Art Meeting: Transformation al Museo d’Arte Contemporanea di Tokyo (2010). Ha partecipato alle biennali di Sidney (2016), di Kochi (2014), di Kiev (2012) e di Busan (2008). Gallerie di riferimento sono la galleria Perrotin di Parigi e Hauser&Wirth di Londra. Vive e lavora a New Delhi

JITISH KALLAT – Nato a Mumbai nel 1974, Jitish Kallat si è formato alla Sir J.J. School of Art di Mumbai, dove si è laureato nel 1996. Le sue personali più importanti includono le mostre Here After Here alla National Gallery of Modern Art di New Delhi (2017), Public Notice 2 alla Art Gallery of New South Wales di Sydney (2013), Circa al Ian Potter Museum of Art di Melbourne (2012), Fieldnotes: Tomorrow was here Yesterday al Bhau Daji Lad Museum di Mumbai (2011), Public Notice 3 all’Art Institute di Chicago (2010), Aquasaurus alla Sherman Contemporary Art Foundation di Paddington (2008), Lonely Facts alla Kunsthalle Luckenwalde (1998). Ha partecipato alle principali collettive di arte indiana tra le quali: India: Art Now all’Arken Museum di Ishoj (2012-13), Indian Highway IV al Musée d’art contemporain de Lyon e al MAXXI di Roma (2011-12), The Empire Strikes Back: Indian Art Today alla Saatchi Gallery di Londra (2010), Indian Highway alla Serpentine Gallery di Londra (2008-09), Urban Manners all’Hangar Bicocca a Milano (2007), Century City alla Tate Modern di Londra (2001). Gallerie di riferimento sono Nature Morte di New Delhi, Templon di Parigi e Chemould Prescott Road di Mumbai. Vive e lavora a Mumbai.

ATUL DODIYA – Nato a Mumbai nel 1959, Atul Dodiya ha conseguito il BFA alla Sir J. J. School of Art nel 1982. Per due anni ha frequentato l’Ecole de Beaux-Arts di Parigi (1991-92). Oltre alle numerose mostre in India e nelle gallerie di riferimento ha tenuto le personali Atul Dodiya al Detroit Institute of Arts Museum (2020), 7000 Museums: A Project for the Republic of India al Dr. Bhau Daji Lad Museum di Mumbai (2014), Experiments with Truth: Atul Dodiya, Works 1981–2013 alla National Gallery of Modern Art di New Delhi (2013), Atul Dodiya al Contemporary Arts Centre di Cincinnati (2013), E.T. and Others alla Walsh Gallery di Chicago e al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid (2002). Ha partecipato alle biennali di Kochi (2012), Mosca (2009) e Gwangju (2008) e ad ICon: India Contemporary, evento collaterale alla 51a Biennale d’arte di Venezia (2005). È rappresentato dalla Galleria Templon di Parigi e Chemould Prescott Road di Mumbai. Vive e lavora a Mumbai.


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